La prima volta che osservai la mia impronta nella terra bagnata da una pioggia benedetta, rimasi stupita e desolata.
Ne avevo di strada da fare per giungere a quell’orma poco più in là della mia, possente e profonda. Cinque bucherelli ed un cuore quasi impercettibili, lasciavo al mio passaggio, di fianco le tracce di coloro i quali avevano visto molte lune!
Da loro ho imparato la fierezza ed il coraggio: eppure non era abbastanza.
Nel gioco, il puro divertimento veniva sovrastato dal sentore di istinti primordiali: al di là di quella rete metallica, i confini della mia terra natale, potevo correre e far battere quel cuore che emanava pulsazioni!
Dal ventre si propagava fin nelle zampe: ero una predatrice, ero una leonessa.
Ardevo come la sabbia nel deserto della Savana!
Ma lì, in quel recinto, né caccia libera, né sieste e giochi, né corteggiamenti o la gioia dell’oasi, era possibile sperimentare.
Cibo e acqua erano presenti eppure quegli strambi esseri che riuscivano a stare in posizione eretta, avevano uno strano odore.
Non ho mai conosciuto nessuno che provenisse dal mondo fuori, da quelle valli dell’Africa popolate da chissà quali specie, chissà quali avventure. Sapevo solo che la tranquillità veniva gettata su quello spazio come un lenzuolo, il cui scopo era proteggere dalla polvere.
Quella tranquillità nascondeva un timore pauroso.
La vita scorreva, le stagioni cedevano il passo ad altre, la volta celeste fissa si mostrava ai miei occhi di stirpe regale: oltre i recinti, avrei avuto una tiara.
Un giorno, sommersa e perduta in questi pensieri, sentii un pizzicotto nel fianco, un lampo esploso e circoscritto, tutto ad un tratto il mondo si mise a girare vorticosamente.
L’equilibrio venne meno e per un attimo credetti di raggiungere gli astri ed i grandi re del passato. Sentii prendermi le zampe e il contatto di una presa ferrea mi morse le articolazioni delle zampe.
Ero ancora in questa landa d’Africa.
Sentii scossoni, il corpo sobbalzare al ritmo di buche: dove mi trovavo?
Sempre nel vortice dei sensi avvertii il timore risalire.
Attacco e fuga: la Natura mi parlava.
La pesantezza delle membra però impediva di seguirne il richiamo. Dovevo prendere aria, dovevo respirare. Dopo un tempo che pareva una eternità, un colpo secco e la luce del pieno giorno si infilò nei miei occhi. Corsi fuori con la forza concessa dalla sete e dal bisogno di ossigeno.
Tremavo nei muscoli, erano così fragili! Cosa era accaduto, cos’era quel pizzicotto?
Mi ritrovai in uno spazio ancora più piccolo, disorientata e debole, girai la testa per fiutare…
Due esseri – come li chiamava Nimba, il leone più anziano? Ah, si! – umani, stavano di fronte a me. Uno imbracciava uno strano oggetto: non lo avevo mai visto, emanava un odore acre e paludoso, lo stesso della carne che veniva gettata nel recinto, lasciata da troppo tempo a marcire.
La Natura mi aveva richiamato, ora più forte, incitava le zampe a correre, ad essere scattanti e poderose – erano fatte per quello- ma il formicolio dei muscoli impediva tutto.
Dovevo andarmene, volevo essere fiera e mostrare quel coraggio necessario per guadagnarmi la tiara.
Le forze non lo consentivano.
Sapevo che la polvere davanti a me era intrisa di odore di morte. Osservai quegli esseri in piedi di fronte a me, uomini! Le orecchie avvertirono l’inizio di un volo, un suono meccanico e secco. Un dolore acuto mi colpì al fianco destro, di nuovo. Una scarica che non potevo sorreggere.
Chiesi alla Natura di accasciarmi nobilmente.
Il bruciore di un fuoco non benigno avvampava. Volsi gli occhi non ai passi veloci di quegli uomini bruti, li volsi alle piccole foglie di Baobab poco distante da me. Intravedevo il cielo. Non ero stata coraggiosa. La linfa dentro di me se ne andava. Un rumore sordo arrivò mentre socchiudevo gli occhi, il bruciore lancinante raggiunse il suo apice e cessò.
Mi ritrovai a camminare piena di energie in un’oasi con acque cristalline e tantissimi animali. Com’era possibile? Osservai la mia impronta e la confrontai con un’altra…
“Sei con noi, protetta dai grandi Re. Sono Namubi la tua guida. Ora non sei più della terra, hai mostrato fierezza e valore. Hai altri viaggi da affrontare, lascia a quei barbari glorie vanesie. Corriamo verso ciò che è fatto per noi.”
Ero libera.
*
Questa storia si basa sulla realtà che vige in Sudafrica. I leoni e le leonesse di molti allevamenti (si stima che ben 12mila leoni vengono allevati per scopi brutali e speculativi), crescono sin dalla nascita in recinti, per diventare trofei di guerra di ricchi turisti che pagano per “uccidere” la loro preda sedata in precedenza. Una pratica costosa (riservata perciò ai più abbienti) e legalizzata oltre ad essere poco denunciata. I cuccioli di leoni vengono strappati dalla madre e cresciuti negli allevamenti, vengono fatti incroci, nascono ibridi, sono resi “animali domestici” per via di una farmacoterapia costante. Infine sono usati, sfruttati a solo scopo di mercato: oggetti da vendere, da sbarazzarsene.
C’è una voce che sussurra ai leoni ed a chi ha voglia di ascoltare, dice:
“spero che guardando i miei video la gente comprenda che questi animali sono davvero splendidi e non rappresentano una minaccia per l’uomo, tantomeno dei trofei da appendere in casa; voglio che imparino a rispettarli …”.
Sono le parole di Kevin Richardson, etologo, il cui rapporto con i leoni è davvero unico e magico. Ogni suo gesto in loro compagnia è un rituale, un dialogo. La Kevin Richardson Foundation si occupa di sensibilizzare le persone del luogo, i turisti con lo scopo di proteggere questi splendidi animali.
Alzando gli occhi ora è possibile vedere un Leone Bianco (si tratta di un polimorfismo genetico che causa la mutazione nella colorazione del leone) che passeggia nella Riserva del Timbavati.
erica g.